25 settembre 2008

Bodai Dojo Roma

L'Associazione Bodai-Roma organizza:

Pratica Regolare

ORARI

Aikido

Mercoledì ore 06.50

Sabato ore 8.00

Katsugen Undo*(Movimento rigeneratore) Sabato ore 10.00*

Per iscriversi alla pratica regolare di Katsugen Undo occorre aver partecipato a uno stage di Regis Soavi Sensei

"Sedute di Scoperta"

Gratuite Aikido della Scuola Itsuo Tsuda

è necessaria la prenotazione.

Week End

di pratica

20 - 22 Marzo 2009

1 - 3 Maggio 2009

il calendario delle sedute può subire variazioni


TARIFFE

Pratica regolare

Aikido e Katsugen Undo80€ al mese

Aikido50€ al mese

Stage120€

Week End40€

per i minori di 18 anni 50% su tutte le quote

c/o Dojo Nozomi, Via dei Mille 62 - 00185 Roma

Per Informazioni e prenotazioni

contattare il numero 334-8999061

e-mail: bodai@scuolaitsuotsuda.org

14 settembre 2008

Tiziano Terzani




LA SELVA OSCURA NELLA VALLE DELL'ORSIGNA.


di Tiziano Terzani



Avvincenti storie di streghe, fantasmi e spiriti fra rocce, boschi e vecchie case in un incantevole piccolo borgo sull'Appennino toscano, senza storia e senza eroi. Pochi gli abitanti, ma tanta l'umanità e la saggezza. È un bellissimo omaggio alla terra in cui Terzani ha posto le sue radici. Ma è anche un articolo in cui la poetica e l'etica dello scrittore fiorentino si rivelano in una forma assolutamente cristallina. Le streghe erano tre. Stavano sedute sui rami alti del noce accanto alla fontana. Confabulavano e ridevano. Dapprima Ettore sentì solo le loro voci, poi, aguzzando gli occhi già abituati al buio della notte perché tornava a casa dopo aver giocato a carte con gli amici, le riconobbe. Volle scappare, ma anche le streghe avevano riconosciuto lui e la più vecchia lo bloccò con la sua maledizione: «Ettore, quel che hai visto scordatelo. Se mai ti esce una sola parola di bocca, subito morirai».Passarono gli anni ed Ettore non disse mai nulla a nessuno. Poi un giorno che era in Calabria a fare il carbone con dei compaesani e che il discorso, durante la cena, cadde sulle streghe, e che il noce, la fontana e il bar gli parevano lontanissimi, gli venne da aprirsi il cuore. «Io le streghe le ho viste...». E fece i nomi. La mattina dopo, mentre era al lavoro, una carica di legna gli venne inspiegabilmente addosso ed Ettore ci rimase secco. Questa fu una delle prime storie che mi raccontarono quando arrivai ad Orsigna. Ero bambino, venivo dalla città a villeggiare e volevano che imparassi a comportarmi ed a rispettare i tabù della montagna. Ogni bosco, ogni forra, ogni roccia sembrava averne uno e i loro nomi parevano fatti apposta per non far perdere alla gente la memoria delle loro origini, così come le croci e le madonnine messe lungo i sentieri e per le selve.La Tomba era un piano che una donna, per sfidare la credenza che lì ci si aggirava uno spirito, una notte d'inverno aveva voluto attraversare. Dal grembo le era caduto il fuso con cui filava la lana, quello s'era piantato nella neve bloccandole la gonna, lei s'era sentita come tirata da una mano invisibile e al mattino l'avevano ritrovata stecchita, morta di paura. Il Fosso dello Scaraventa era dove uno che diceva di non credere ai fantasmi era stato da quelli buttato giù per le balze. La Pedata del Diavolo era dove il demonio, che abitava nella valle dell'Orsigna - chiamata ai vecchi tempi «La Selva oscura» -, aveva appoggiato per l'ultima volta il piede, scappando dinanzi alla Madonna, venuta a liberare gli abitanti dalla dannazione eterne. Su quel pezzo di terra ancora oggi non cresce un solo filo d'erba. Quei posti, con le loro leggende raccontate dai vecchi, m'incantarono.Sono passati cinquant'anni, sono stato nel frattempo negli angoli più strani e lontani del mondo, ma da quell'incanto non mi sono liberato e l'Orsigna, con le sue duecento «anime», come qui chiamano ancora gli abitanti, resta il mio ombelico sulla terra.«Orsigna, 806 metri sul livello del mare», dice il cartello all'inizio del paese. Firenze è a soli 75 chilometri di distanza, ma la strada che oggi ci arriva non va da nessun'altra parte e bisogna conoscere il segreto di una curva sulla vecchia, ottusa Porrettana per vedersi aprire, inaspettata, ogni volta come riscoperta, questa valle ariosa in un semicerchio di monti i cui colori marcano il passar delle stagioni.Al contrario dell'Abetone, Maresca, Gavinana o San Marcello, paesi noti dell'Appennino toscano, Orsigna non ha mai avuto una sua ragione di vanto. Non c'è mai successo nulla di storico, non ci si è fermato mai nessuno di famoso. L'unica lapide del paese è quella sulla facciata della chiesa, coi nomi e le fotografie smaltate di una ventina di ragazzi di qui, morti nella Grande guerra. Il più vicino che un «grande» sia mai arrivato fu a cinque chilometri: quando il Carducci dovette fermarsi alla stazione di Pracchia a causa di un guasto alla locomotiva del treno che lo portava alle Terme di Porretta.Io ad Orsigna ci venni per la prima volta nel 1945, portato da mio padre, che c'era stato da giovane, quando, per sciare, si legavano le palanche delle staccionate alle scarpe. Ci arrivammo a piedi, lungo la mulattiera. Non era un vero posto di villeggiatura e trovammo facilmente una camera da affittare. Per alcuni anni stemmo dall'Azelia, la postina, poi dalla Filide, una pastora che da ogni marito che le era morto aveva ereditato qualcosa e la cui casa era per questo una delle migliori del paese.Ogni estate ero lì a badar le pecore coi ragazzi della mia età, a cercar funghi, a raccoglier mirtilli, a guardare la levata del sole da una delle cime, tutte sotto i duemila metri, ma tutte - per me - altissime. L'Orsigna è stata la mia scuola di vita. Qui ho fatto il primo ballo, ho avuto il primo amore, le prime paure, i primi sogni. Coi miei primi risparmi comprai il prato dove avevo mandato l'aquilone e con le pietre del fiume ci feci una casa come quelle degli altri, solo con la porta e le finestre più grandi. Il pensiero di quel posto m'è servito da bussola nei miei vagabondaggi nel mondo e quando ai miei figli, cresciuti sempre in paesi d'altri, ho voluto dare delle radici e mettere nella memoria l'odore di una casa a cui legare poi la nostalgia dell'infanzia, ho imposto loro, come regola di famiglia, di passare ogni anno due mesi ad Orsigna. C'era in questa valle selvaggia con la sua gente senza storia - tranne quella d'una gran miseria - senza gloria - tranne quella delle leggende di cui si sentivano protagonisti - una misura di umanità che volevo i figli imparassero e si portassero dentro. Strana gente quella dell'Orsigna! Già i loro nomi mi impressionarono quando arrivai. Gli uomini si chiamavano Assuero, Smeraldo, Antimo, Elio; le donne Sedomia, Elide, Fortunata. A me, fiorentino, pareva strano che loro non sapessero bene chi fossero i loro antenati. Alcuni dicevano che venivano da una compagnia di ventura a cui un signore, non potendoli pagare, aveva dato in feudo la valle. Da qui i loro nomi di famiglia: Venturi, Caporali e quello d'un caseggiato chiamato il Vizzero. Altri dicevano che all'origine erano dei contrabbandieri che in questa valle inaccessibile e zona di confine fra le terre del Papa e quelle del Granduca di Toscana, evitavano di pagare il dazio alle Gabbellette (un posto si chiama appunto così) e varcavano la montagna in un punto impervio chiamato, non a caso, Porta Franca. Certo è che in questa valle, scura di boschi di castagni e faggi, gli orsignani, lontani dalle città - Firenze e Pistoia - di cui diffidavano, erano cresciuti liberi e pieni d'orgoglio. Abitavano nei loro piccoli borghi sparsi lungo le coste dei monti; ed anche alla Chiesa, come si chiama ancora oggi il paese vero e proprio, ci andavano solo per la Messa, per giocare a carte, per bere e per comprare il sale ed i fiammiferi. Il resto lo facevan da sé. Eran pastori e dalle pecore e dai castagni tiravano tutto quello di cui avevano bisogno. Anche dal medico ci andavano solo in punto di morte. Alighiero sapeva bloccare il sangue di una ferita recitando una formula misteriosa; Ubaldo - quello vive ancora - con una sua formula segnava il fuoco di Sant'Antonio. Gli orsignani era gente che aveva tempo. Con un filo d'erba in bocca, stavano per ore ed ore in cima ad un colle a guardare il gregge con tutto l'agio di pensare e di tacere. Mi parevano conoscere l'animo umano come pochi . Da ogni piccola vicenda mi sembravano capaci di tirar fuori l'archetipo con quella semplicità in cui, piano piano, ho imparato a riconoscere la grandezza. Erano, per necessità, grandi osservatori della natura e da quella tiravano sempre grandi lezioni ed il senso di un equilibrio che si rifletteva nel dar vita, a volte solo con un nome e una leggenda, ad ogni sasso, ad ogni forra. Crescendo imparai ad apprezzarli sempre di più. Io andavo in capo al mondo a cercar di capire qualcosa; loro, senza saper né leggere né scrivere, restando sempre lì, ma facendo d'ogni piccolezza un capitale, s'eran costruiti un gran sapere, mi pareva. Tornavo dal Vietnam e Alighiero, che la guerra l'aveva vista solo una volta quando i tedeschi eran venuti a bruciare una borgata nella valle per rappresaglia d'un attacco partigiano, sembrava saperne tanto più di me. E forse era così. Io avevo visto per un attimo un grande bagliore, lui aveva visto il lento scorrere delle cose nella loro interezza. I cinesi hanno una bella espressione per descrivere come io vivevo - ed ancora vivo - «Guardare i fiori dal dorso di un cavallo». Proprio così: in 25 anni d'Asia ho visto tanti fiori, a volte straordinari, grandi, ma dall'alto di un cavallo, sempre di corsa, sempre a distanza, senza troppo tempo per soffermarmici. Gli orsignani hanno visto pochi fiori, forse piccoli, ma ci sono stati accanto, li hanno visti sbocciare, crescere, morire. E di quello straordinario ciclo della vita son diventati esperti. E liberi, anche dalla morte. Questo è un posto in cui tanta gente s'è suicidata come non volesse dipendere dai disegni di nessuno, neanche da quelli, all'ultimo, del loro Creatore. La Nunziatina, mia vicina, qualche anno fa, si buttò dalla finestra per poter andare ad occupare al cimitero la tomba che s'era resa libera accanto a quella del marito. Aveva sentito che un'altra donna del paese era stata portata all'ospedale e sapeva che, se quella moriva prima di lei, lei avrebbe perso il posto in cui voleva esser sepolta. Gli orsignani vivevano in un mondo tutto loro, con regole loro, e della città rifiutavano tutto. Persino la spiegazione del nome del loro posto. Orsigna, stando agli storici, veniva dal fatto che la valle, menzionata già in documenti dell'anno Mille, era piena di orsi (da qui i due che sono nello stemma di Pistoia), ma secondo gli orsignani il nome avrebbe a che fare con una principessa Orsinia (degli Orsini?) esiliata qui ad espiare un «fallo d'amore». Le sue guardie erano protette da grandi armature e solo quando si spogliavano per prendere il sole su uno dei colli si vedeva che erano delle magnifiche ragazze. Quel posto si chiama ancora Le Ignude. «Lì ci si sente», mi dicevano gli orsignani, indicandomi i ruderi di un posto che si chiama Il Castello (quello della principessa?), ma che tutt'al più poteva essere stato un gruppo di misere casupole di pietra. Io stavo in silenzio a cercare di sentire i lamenti antichi della Orsinia, ma non ci riuscivo. «Ci vuole che tu abbia il secondo udito e la seconda vista», diceva Guidino, un vecchio piccolo piccolo che mi era amico. Lui quei secondi sensi li aveva tutti. Viveva in una casa tutta nera di fumo, ma era un poeta nato, e vinceva regolarmente le gare di contrasto in cui, davanti ad una damigiana di vino, i vari poeti del paese si sfidavano a cantare, a rime alterne, uno difendendo le virtù della donna mora, l'altro quelle della bionda; uno i pregi del sole, l'altro quelli della luna. Oggi nessuno canta più di contrasto ad Orsigna. Col passare degli anni tante cose anche qui sono cambiate. È arrivata la televisione ed attorno al camino, la sera, la gente non ci sta più a conversare. La maggioranza dei pastori sono scesi in pian o e i loro figli son diventati cittadini. Eppure molti di loro tornano, rifanno le vecchie case, tornano per andare a funghi, per vedere sorgere il sole dalle cime e per ballare in piazza sotto l'unico monumento del paese, un piccolo Cristo di marmo a braccia aperte. Torno sempre anch'io e sempre più mi domando se, dopo tanta strada fatta altrove, in mezzo a tante genti diverse, sempre in cerca d'altro, in cerca d'esotico, in cerca d'un senso all'insensata cosa che è la vita, questa valle non sia dopotutto il posto più altro, il posto più esotico e più sensato, e se, dopo tante avventure e tanti amori, per il Vietnam, la Cina, il Giappone ed ora per l'India, l'Orsigna non sia - se ho fortuna - il mio vero, ultimo amore.